Roma – In un pomeriggio intriso di emozione, speranza e fede, Papa Francesco ha fatto ritorno tra le mura del carcere di Regina Coeli, portando con sé un messaggio di vicinanza e misericordia per chi vive privato della libertà. Anche quest’anno, nel giorno del Giovedì Santo, il Pontefice ha voluto compiere un gesto concreto verso i detenuti, nonostante la recente convalescenza: “Sempre mi è piaciuto venire in carcere per fare la lavanda dei piedi. Quest’anno non posso farlo, ma posso e voglio essere vicino a voi. Prego per voi e per le vostre famiglie”.
Accolto da cori, applausi e grida dai finestroni delle celle — «Libertà!», «Padre, siamo con te!», «Prega per la Palestina!» — il Papa ha attraversato le soglie del penitenziario romano con la semplicità e la forza simbolica che da sempre caratterizzano il suo pontificato. La sua presenza è stata un dono inaspettato per i circa 70 reclusi presenti nel salone principale, molti dei quali in attesa di giudizio. Un incontro breve, ma denso di gesti e parole capaci di toccare l’anima.
Il dono della presenza
Con un Rosario al collo e un Vangelo in mano, Francesco ha distribuito piccoli doni spirituali – Vangeli tascabili e coroncine – ma soprattutto ha offerto ascolto e comprensione. Ha stretto mani, accolto preghiere, sorriso a chi gli si è avvicinato con occhi lucidi e parole rotte dall’emozione. C’è chi si è inginocchiato, chi ha baciato la sua mano, chi gli ha chiesto una benedizione per la famiglia o per il mondo intero.
Tra loro Ferdinando, in carcere da dicembre, che ha consegnato al Papa un biglietto scritto di suo pugno: “Che la luce del Signore possa illuminare la mia vita e quella della mia famiglia. Grazie Papa per avere degnato della vostra presenza.” Francesco si è fermato con lui, gli ha chiesto della famiglia e gli ha promesso preghiere. Ferdinando è scoppiato a piangere: “E chi l’aveva mai visto il Papa! Non pensavo di trovarlo in carcere.”
Voci dietro le sbarre
L’aria era carica di un’umanità cruda e sincera. Matteo, 26 anni, ha raccontato al Pontefice la sua storia: recluso da un mese e mezzo “per errore”, dice, dopo aver difeso la sua ragazza da una violenza. Giovanni, dalla consolle audio, ha rivelato di essere tra gli autori della lettera inviata al Papa dopo la visita a Rebibbia: “Gli abbiamo scritto: ‘Passi anche da noi’. Oh, abbiamo pregato, ed è venuto davvero!”
Non sono mancati momenti di profonda spontaneità, come Alessandro che ha chiesto di mandare un saluto ai suoi figli, o Mauro che ha affidato al Papa un messaggio per il mondo: “Insista sulla pace, che questo mondo corre troppo verso la tecnologia e si dimentica degli uomini.”
“Perché loro e non io?”
Fuori dal carcere, parlando con i giornalisti, il Papa ha confidato il pensiero che lo accompagna ogni volta che entra in un penitenziario: “Perché loro e non io?” Una riflessione che evidenzia la sua profonda empatia per chi è caduto, per chi soffre, per chi è ai margini.
Alla domanda su come avrebbe vissuto la Pasqua, ha risposto con il suo consueto tono ironico e disarmante: “Come posso.”
Un gesto che lascia il segno
Padre Vittorio Trani, cappellano del carcere, ha espresso con chiarezza la portata del gesto: “Quella di oggi è stata la visita di un padre. Il Papa ci ha ricordato che il carcere non riguarda solo i detenuti, ma anche chi vi lavora, chi lo gestisce. È un mondo fragile e spesso dimenticato, ma oggi si è sentito al centro dell’amore cristiano.”
La visita si è conclusa con un saluto commosso del Papa dal finestrino della sua Fiat 500L bianca, mentre baciava la mano in direzione delle grate da cui sbucavano occhi, speranze e sorrisi. “Pregate per me”, ha detto, e con un pollice alzato ha lasciato, ancora una volta, un segno profondo nel cuore di chi lo ha incontrato.
Un incontro breve, ma eterno per chi ha ricevuto non solo la visita di un Papa, ma l’abbraccio di un padre.