Il Pontefice all’Angelus odierno invita a riflettere sul miracolo descritto in Giovanni 9,1-41, la guarigione del cieco a opera di Gesù, e sulle reazioni dei presenti.
In quel momento infatti innanzitutto si chiedono chi sia il colpevole per la cecità, i genitori? Lui stesso con qualche peccato? Dopo la guarigione poi c’è addirittura incredulità, scetticismo: non può essere lui, è un’altra persona. “In tutte queste reazioni, emergono cuori chiusi di fronte al segno di Gesù, per motivi diversi: perché cercano un colpevole, perché non sanno stupirsi, perché non vogliono cambiare, perché sono bloccati dalla paura”.
Chi è invece che accetta quanto avvenuto e ne è felice? Proprio il cieco, che riconosce semplicemente di essere tornato a vedere. “Non ha paura di quello che diranno gli altri: il sapore amaro dell’emarginazione lo ha già conosciuto, per tutta la vita, ha già sentito su di sé l’indifferenza il disprezzo dei passanti, di chi lo considerava come uno scarto della società, utile al massimo per il pietismo di qualche elemosina ”.
Con la sua guarigione “Gesù gli ha dato piena dignità. E questo è chiaro, succede sempre: quando Gesù ci guarisce, ci ridona dignità, la dignità della guarigione di Gesù, piena, una dignità che esce dal fondo del cuore, che prende tutta la vita; e Lui di sabato, davanti a tutti, lo ha liberato e gli ha donato la vista senza chiedergli nulla, nemmeno un grazie, e lui ne rende testimonianza”. Nient’altro, Gesù non si aspetta nulla. Solo che venga resa testimonianza del suo operato, affinché altri possano credere in lui e ricevere grazie.
Allora quello su cui dobbiamo riflettere è come reagiamo noi nella stessa situazione. “Siamo liberi di fronte ai pregiudizi o ci associamo a quelli che diffondono negatività e pettegolezzi?” Sappiamo dare testimonianza o abbiamo paura del giudizio altrui? E di fronte alle difficoltà degli altri, come ci comportiamo? C’è un unico modo: accostarsi a loro con amore.